
“Io mi sento né qua, né là e non riesco mai a decidere se restare in Italia o tornare in Senegal…”. Così una donna di 37 anni descriveva un suo momento esistenziale qualche anno fa durante un colloquio. Questa affermazione/indecisione che la signora Apie esprimeva, a sé stessa prima che a me, al di là delle implicazioni linguistico-grammaticali di chi non ha molta dimestichezza con la lingua italiana, colpisce per il suo significato metaforico. In italiano si usa dire: “Io non mi sento né qua né là”, ma questa costruzione 8 sintattica potrebbe allontanarsi dal probabile contenuto più intimo di quanto la signora stava comunicando.
Dire “Io mi sento” sembra dare un valore rafforzativo all’esserci; “Né qua né là” rappresenta l’ambiguità di questo esserci. Trovo significativa questa frase per introdurre il discorso sull’identità, concetto che nelle scienze sociali ha assunto diversi e non sempre coerenti significati e definizioni a seconda dell’approccio conoscitivo. In senso psico-sociologico il concetto di identità tende ad individuare “un insieme di caratteristiche personali e culturali, che permettono di definire la personalità di un soggetto”, oppure “la rappresentazione soggettiva che l’individuo ha di sé” che si intreccia con “l’immagine che gli altri hanno di una persona”. Si parla inoltre di identità nazionale, culturale, sociale, religiosa, del rapporto tra identità e identificazione... Possiamo supporre che l’identità, in senso lato, rappresenti tutto questo, ma non è solo questo. Soprattutto chi vive l’esperienza migratoria, indipendentemente dalle ragioni del proprio percorso o progetto di vita, arriva prima o poi ad un punto che potremmo definire una sorta di “sospensione spaziotemporale”, determinata dall’essere tra (un ieri e un oggi, un oggi e un domani, un mondo di provenienza e un paese di accoglienza, ecc.) che caratterizza la sua condizione, dove si intrecciano dubbi e desideri, incertezze e speranze. Gli sviluppi di questo “essere tra” è ambiguo e 9 complesso, fortemente legato a quanto accaduto e accade nella vita del migrante ed al contesto socio-culturale in cui si trova. Ma il problema dell’identità non riguarda solo i cosiddetti “immigrati”3 , interessa anche la nostra identità. Che il bisogno di “attaccamento ad una identità”, o di ri-formularne il concetto, sia tornato d’attualità anche in conseguenza del moltiplicarsi dei fenomeni migratori è indubbio. Esso infatti richiama il timore più generale di quegli individui e gruppi che si sentono minacciati dalla contaminazione di forze culturali e sociali nuove, quasi che questa “intrusione” finisca per sottrarre “autenticità” all’identità stessa. Finché si tratta di “attribuire all’Altro” un marchio di identità la cosa può apparire abbastanza semplice (o complessa, a seconda dei punti di vista). Ma nel momento in cui l’Altro, con l’ambiguità della sua “presenza-assenza”, investe direttamente la categoria del “Noi”, tale categoria spesso è portata ad innalzare barriere “culturali” in difesa di un non ben precisato “territorio identitario”, i cui confini peraltro, ammesso che sia facile delimitarli, appaiono sempre più deboli e sfumati. Contemporaneamente anche l’Altro, sentendosi “non accolto, riconosciuto, rispettato”, è portato ad innalzare barriere (di solito questo interessa meno la pubblica opinione).
E’ indubbio che l’impostazione della ricerca si intreccia con la mia attività professionale di assistente sociale, conserva l’impronta di tecniche di colloquio ed ascolto, modalità di porsi nella relazione, in una parola di uno stile di lavoro acquisito negli anni attraverso il rapporto diretto con l’utenza. Ritengo tuttavia che anche l’esperienza di tutti i giorni solleciti l’esigenza di un confronto con l’Altro, con il quale siamo in contatto in maniera sempre più ravvicinata e frequente. Sono convinto che confrontandoci direttamente e negli ambiti sociali più vari, riusciamo a cogliere più che le differenze, le affinità con l’Altro.
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