
Era una bicicletta di taglio bastardo; usata, ma in buonissime condizioni. Verde, però non un verde qualsiasi, un bel verde bottiglia e sul telaio una vistosa scritta in oro “Willer”.
Avevo anch’io il mio cavallo d’acciaio che mi avrebbe reso imbattibile.
Non ho mai saputo se l’avesse comprata o gliel’avessero regalata. Avevo quasi nove anni quando mio padre, che era tornato a casa per una licenza. Consegnandomela mi disse: “Se non ne tieni di conto ti ci metto il lucchetto. Fai attenzione a non cadere e ricordati che a scuola ci devi andare a piedi”.
Ero grande per la mia età, ma ci arrivavo appena.
Ottobre 1943, avevo iniziato la quarta elementare, mio padre era tornato dalla Linea Gotica e stava per partire diretto alla “macchia” insieme ad altri compagni di sventura; tra questi un paracadutista, delle truppe di quelli che chiamavano alleati, che era capitato lì non so come.
La “macchia”, in questo caso, erano le colline a sud di Firenze. Si pensava che presto da quella parte sarebbero arrivati gli americani.
Troppo lunga fu l’attesa per fermare i drammi della guerra.
Io intanto con la mia bicicletta verde scorrazzavo per il quartiere fuori le mura della mia città, dove allora incominciavano i campi.
Con due mollette avevo fissato ai raggi delle ruote due carte, il Fante di picche e la Donna di fiori, il rumore simulava quello del motore presente solo nella mia fantasia.
Mi sembrava di volare, la mamma ne approfittava per mandarmi a fare la spesa, questo finché durarono i copertoni, poi a piedi come prima.
“Mi dispiace – disse mia madre – ma i soldi servono per mangiare”.
Finché un bel giorno di primavera, la mamma mi riconsegnò la bicicletta verde con le gomme nuove.
Manifestai con salti ed urla di gioia, la mia felicità e non mi passò dalla testa neanche per un attimo il pensiero di come questo miracolo fosse avvenuto; il giorno prima avevamo mangiato solo una volta.
Lei mi guardava seria e assente, forse pensava al babbo; mancavano da troppo tempo sue notizie.
“Senti Mauro, posa un attimo la bicicletta e vieni vicino me”. Mi prese le mani attirandomi a se: “Lassù in collina si pensa che abbiano difficoltà a trovarsi da mangiare e poi è necessario avere e dare notizie più precise. Qualcuno ha detto che sono costretti a stare sempre in fossa nascosti anche ai contadini che non vogliono avere noie”.
Pieno d’entusiasmo di chi cresce improvvisamente gli domandai: “Tocca a me vero?”.
Avrei rivisto il babbo e finalmente potevo rimontare sulla mia bicicletta verde e correre per strade e campi senza limite, perché ero diventato grande. Non avevo più bisogno del Fante di picche e della Donna di fiori. Anche perché mi avevano detto che dovevo passare inosservato e non dovevo parlarne con nessuno.
Per andare in collina, dove c’era la “fossa”, dovevo percorrere un lungo tratto di piana poi una strada sassosa in salita, di circa tre chilometri, che s’inerpicava per il poggio. Quel tratto ero costretto a farlo a piedi spingendo la bicicletta verde piena di pacchi e borse. Mentre ansimavo pensavo con entusiasmo alla discesa che dopo avrei fatto spericolatamente scansando i sassi più grossi.
Stavano nascosti in un tratto della fossa che era coperto da un terrapieno, realizzato su tavole di legno, che permetteva il passaggio tra un podere e l’altro.
Erano in cinque: il babbo, il Rossino, Joe ed altri due che non conoscevo.
“Passa vicino al pioppo per scendere nella fossa - mi diceva il babbo - dall’altra parte c’è il nostro gabinetto”.
Pochi minuti prima di ripartire; a quel punto la solita raccomandazione: “Stai attento, non devi far capire a nessuno che vieni qui”.
Mi chiamava vicino a se per dirmi altre cose che dovevo riferire ad un Signore che conoscevo appena. Cose senza senso, per me incomprensibili, ma che mio padre mi faceva ripetere come le litanie del vespro perché non le dimenticassi.
Una cosa meravigliosa; almeno due volte la settimana, dopo la scuola, dovevo inforcare la bicicletta verde e vivere felice questa avventura che sapevo importante, perché non dovevo dire niente a nessuno.
Tutto filò liscio fino ad una bella giornata di giugno. La felicità mi scoppiava nel petto, la scuola era finita ed io ero stato promosso. Anche il babbo sarebbe stato contento.
Sfrontato correvo veloce tra i pericoli della guerra, mezzi militari, bombardamenti, macerie … la mia arroganza infantile mi faceva credere che le disgrazie erano solo per gli altri, tutti quelli che Dio mi aveva messo intorno per costruire il teatro della mia vita.
Così pensavo pedalando sulla mia bicicletta verde, fino a quando fui affiancato da un mezzo militare tedesco, quello vicino all’autista mi intimò: “Alt”....
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