
Una attaccata all’altra, basse e con la facciata scortecciata. Le chiamavano “le casine”, ora si chiamerebbero terra tetto o con un po’ più di pompa villette a schiera.
Erano abitate da chi non poteva permettersi un appartamento in un palazzo di tre piani, dove magari c’era anche il riscaldamento.
Le corti e i giardini, dietro, erano divisi da una rete di ferro rugginosa, talvolta ornata da filo spinato; confine invalicabile per i grandi ma non per i gatti e i bambini.
Rivedo la scena: con i pantaloncini corti sopra il grembiulino dell’asilo ormai troppo corto sto appoggiato alle gambe del babbo; faccio merenda, pane e marmellata, quella d’albicocche della fabbrica di Ugnano.
I nostri vicini hanno la radio, la tengono molto alta, tutti devono sentire perchè si tratta di cose molto interessanti.
Il babbo e la mamma stanno vicini al trogolo; il nonno è seduto un po’ più discosto sulla sua sedia, quella che lui impaglia da sé. Anche loro, con quelli accanto, ascoltano e commentano le cose che quell’uomo dice.
Manca solo la mia sorellina, lei dorme e quando è sveglia mangia e piange.
“Ha ragione - dice il babbo di Milena - era ora che anche noi entrassimo in guerra. Poveri inglesi, se non crepano prima di paura, fra tre mesi verranno a chiederci scusa, sfilando a Roma come hanno fatto i negri dell’Africa”.
La mamma guarda preoccupata il babbo:
“Richiameranno anche te?”.