
Sono arrivata a Reggio Calabria da Milano un anno fa. Era il 1999, la primavera del mio primo grande amore. Mio padre, il giudice Monteleone, per la sua grande esperienza era stato inviato in questa terra, per cercare di dare una svolta, insieme al pool di giudici calabresi, alla lotta contro la ndrangheta. Io non sapevo niente di quel paese o di Ciccio Carbone. Amavo passeggiare assorta nei miei pensieri. Era uno splendido pomeriggio di primavera, ed era incredibilmente magico camminare lentamente nei viottoli di Reggio Calabria, sotto il sole che finalmente incomincia ad essere caldo e allo stesso tempo con il leggero vento fresco che ti accarezza il viso. Il mio nome è Chiara, la figlia di un giudice, giovane, bella, bionda, grandi occhi verdi, sempre allegra e circondata da tanti amici. È stata la passeggiata più breve della mia vita. Svolto l’angolo con il sorriso sulle labbra, assaporando i profumi e i colori della bella terra di Calabria in primavera. Improvvisamente mi sento afferrare dalle rudi mani di tre uomini per poi essere portata via… Il cuore in gola mi batteva forte, non riuscivo a urlare per la paura, tremavo, non sapevo difendermi. Non ricordo e non riesco a capire bene cosa fosse successo esattamente, perché tutto accadde molto in fretta… chiudendo gli occhi rivedo ancora quello sguardo. Era agghiacciante, eppure trasmetteva un qualcosa di più…si leggeva l’anima e mi sono specchiata attraverso quegli occhi blu come il mare. Appartenevano all’uomo che chiamavano la volpe. Un uomo giovane, volto bendato, mani stupende, che sembravano voler afferrare il mondo… Non era muscoloso né alto, ma forte e furbo, per questo veniva chiamato la volpe! Gli altri due indossavano un passamontagna. Ed erano grossi, alti, forti. Mi stringevano e mi tiravano bruscamente mentre piangevo. Quell’uomo così misterioso, la volpe, mi guardava con i suoi occhi immensi e profondi… Mi caricarono in macchina, stavo dietro con lui, gli altri due avanti. La volpe
doveva tenermi stretta a sé e nascondermi. Correvamo veloci sulla strada. Io piangevo, pensavo ai miei cari, a cosa mi sarebbe successo. Ero imbavagliata e non potevo parlare. Così lo guardavo spaventata, e in silenzio ci guardavamo negli occhi. Sembrava che potesse leggere i miei pensieri. Sembrava potesse capirmi. E il modo con cui mi scrutava mi tranquillizzava, anche se la situazione non era una delle più piacevoli. Andavamo lontano, nessuno si era accorto di niente, nessuno sapeva che stava succedendo. Ero stata rapita, divenuta un ostaggio. Dovevo morire, uccisa dal nemico che mio padre stava combattendo con tutte le sue forze: la ndrangheta! La mia condanna era essere figlia dell’uomo che lottava per la pace di Reggio. Dovevano intimorirlo e fargli abbandonare la sua battaglia, portarmi in un bosco, li sentivo mentre parlavano, dovevano tenermi viva solo tre mesi, divulgare la notizia e il prezzo del riscatto e poi uccidermi lo stesso. Realizzo il tutto e incomincio ad urlare, cercando di liberarmi. Pensavo a mio padre, al suo dispiacere. Era il colpevole delle disgrazie della sua unica bambina, la piccola donna che lui amava tanto. Avrebbe sacrificato la vita per me e adesso ero io che la stavo dando a lui. L’unico conforto erano gli occhi di quell’uomo che adesso mi stringeva la mano, e io lo guardavo smarrita mentre mi teneva stretta a sé e mi fissava. Eravamo arrivati. Mi bendarono, camminammo a lungo per poi fermarci. Sentivo due mani che mi toccavano delicatamente mentre tremavo. Mi tolsero la benda mentre continuavo a tenere gli occhi serrati per paura di riaprirli. Poi presi coraggio, e i suoi occhi stavano lì davanti a me. Eravamo soli in una vecchia cascina abbandonata, la volpe mi slegò, e finalmente disse qualcosa: “Non aver paura, non ti farò del male, Chiara, ti ho slegato ma non puoi scappare, io resterò qui con te giorno e notte, non temere, non ti succederà nulla di male”. Vittima inerme, mi ritrovavo ad ascoltarlo.
Si tratta di un insieme di narrazioni (disegni e narrazioni autobiografiche) accomunate dalla tematica della ndrangheta.
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